È proprio come l’immaginate. Il nuovo album d’inediti dei Pink Floyd, con ogni probabilità l’ultimo della loro storia, ammicca grazie alla familiarità di musiche e timbri, ma delude per la mancanza della visione “progressiva” che connota la musica migliore della band inglese.
Le performance registrate ventuno anni fa col tastierista Richard Wright durante le session di “The division bell” sono state rimaneggiate e hanno dato vita a quattro suite strumentali (tranne una canzone) da una dozzina di minuti l’una. Sono ammalianti e misteriose, ma paiono costruite sugli echi dei vecchi dischi della band.
Privo della completezza musicale e concettuale di altri album del gruppo, “The endless river” mette in luce solo un aspetto dell’arte dei Pink Floyd: la capacità di creare atmosfere suggestive. Soffre di eccessiva frammentazione. Ascoltandolo, si ha la sensazione di sentire introduzioni a canzoni che non sono state mai scritte. Possiede buona parte degli elementi che hanno reso celebri i Pink Floyd: il talento musicale, l’ingegno nel creare visioni sonore, la capacità di realizzare un mondo in cui immergersi per un’ora. Gli manca la cosa che oltre a renderli celebri li ha resi grandi: l’audacia.